PFAS in bottiglia e PFAS nel territorio: cosa ci insegnano Greenpeace e il caso Trissino

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Avrei preferito scrivere di montagna, boschi e sorgenti limpide. Invece torno su un tema che da veneto mi riguarda da vicino: PFAS.


Ne avete sentito parlare per Trissino (Miteni); oggi tornano fuori con l’analisi di Greenpeace su otto marche di acque minerali vendute in Italia.

E il messaggio, pur con tutte le cautele del caso, è semplice: le “sostanze chimiche perenni” sono già dentro la nostra vita quotidiana. Anche dove pensiamo di essere più “protetti”: in bottiglia.

Cosa dice l’indagine di Greenpeace (in due righe chiare)

Greenpeace ha comprato 16 bottiglie (8 marchi tra i più diffusi) e le ha fatte analizzare in due laboratori, uno in Italia e uno in Germania.

https://www.greenpeace.org/italy/storia/29048/pfas-acqua-in-bottiglia/


Risultato: in 6 marche su 8 sono state rilevate tracce di TFA (acido trifluoroacetico), un composto della grande famiglia PFAS. Ferrarelle e San Benedetto Naturale non hanno mostrato PFAS rilevabili (sotto 50 ng/L).
Tra i campioni positivi, i valori più alti di TFA sono stati: Panna (700 ng/L), Levissima (570 ng/L), Sant’Anna (440 ng/L).

Non sono stati rilevati i “20 PFAS” regolati dalla direttiva UE sull’acqua potabile né i 4 “storicamente” più temuti (PFOA, PFOS, PFHxS, PFNA).

Questo non significa “tutto ok”: significa “attenzione”.

Il TFA, infatti, è persistente, mobile e in Germania è classificato come tossico per la riproduzione. È un segnale di contaminazione diffusa che arriva da altre filiere (pesticidi, refrigeranti, reflui, ecc.), non dall’imbottigliamento in sé.

La replica di Mineracqua

Mineracqua sottolinea che i PFAS regolamentati non si sono trovati nei campioni, che il TFA è ampiamente diffuso nell’ambiente e che i valori misurati sono molto sotto il limite fissato dal Governo per le acque potabili (10 μg/L dal 2027): il caso “più alto” dell’inchiesta è 0,7 μg/L, circa 15 volte inferiore.

Aggiunge anche un tema metodologico: manca uno standard europeo uniforme per il TFA, e i due laboratori hanno dato differenze notevoli sullo stesso campione.

Io questa replica la leggo, la rispetto e la metto sul tavolo.

Ma non mi tranquillizza. Perché ?

Il parallelo che non possiamo ignorare: Trissino

Noi Veneti abbiamo imparato a nostre spese che “basso non è zero” e “sotto limite” non è automaticamente “sicuro per sempre”.

A Trissino, per anni, i PFAS sono finiti in falda e nei fiumi fino a disegnare una macchia che ha toccato Vicenza, Verona, Padova.
Dopo un processo lungo, nel 2025 è arrivata una sentenza storica di primo grado: condanne per ex dirigenti, riconoscimento del nesso causale PFAS–salute in un caso di ex lavoratore. È un capitolo giudiziario, ma soprattutto una lezione culturale: se aspettiamo le certezze assolute, perdiamo anni. E i PFAS, per definizione, nel frattempo restano (perenni, appunto).

Il TFA non è PFOA o PFOS, d’accordo.

Ma è persistente, si muove bene in acqua, deriva dalla degradazione di altri PFAS e si accumula negli organismi.

E non c’è bisogno di fare allarmismo per dire una cosa semplice: la prevenzione vera non misura solo “quanto c’è”, ma lavora su “come evitarlo alla fonte”.

Come la vedo da padre (e da cittadino)

Non ho la bacchetta magica, ma so cosa non voglio: normalizzare l’inquinamento a basse dosi come se fosse il pedaggio inevitabile del vivere moderno.
Se oggi è TFA “ben sotto limite”, domani cos’è ? E tra cinque anni ?

In Veneto abbiamo già visto quanto costi, in salute pubblica e denaro, fare finta di nulla all’inizio.

Cosa dovrebbe succedere adesso (concretezza, non slogan)

  • Standard europei chiari sul TFA: metodi di analisi armonizzati, limiti coerenti, criteri condivisi.
  • Divieti alla fonte, non solo limiti “a valle”: ridurre davvero l’uso di PFAS e dei loro “metaboliti rilevanti” nelle filiere dove esistono alternative.
  • Piani di prevenzione e trasparenza: dati aperti, monitoraggi continui su acque potabili, minerali e falde. La fiducia si ricostruisce con i numeri pubblici, non con i comunicati.
  • Bonifiche e responsabilità: dove c’è stato inquinamento storico (vedi Trissino), servono tempi certi, chi paga e tecnologie adeguate (carbone attivo, processi avanzati, ecc.).
  • Informazione onesta: niente panico, ma neanche minimizzare. Se una sostanza è “persistente e mobile”, io voglio saperlo in etichetta o in un portale pubblico chiaro.

E a casa mia, cosa faccio?

Non è un consiglio medico: è la mia routine da genitore che prova a pesare rischi e benefici.

  • Rotazione delle marche che compro, proprio per non “cristallizzare” un’esposizione ripetuta alla stessa filiera.
  • Acqua di rubinetto dove i gestori pubblicano report aggiornati e filtrazione a carbone attivo di qualità dove ha senso (con manutenzione seria, altrimenti è peggio).
  • Pressione civica: scrivo, chiedo dati, partecipo. A Trissino abbiamo capito che i cittadini informati contano.

La domanda vera

Vogliamo continuare a convivere con tracce di chimica persistente perché “sotto limite”, o vogliamo ridurle davvero alla fonte ?

Servono regole, controlli e alternative. Non slogan.

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