Facciamo finta che io sia al bar sotto casa e qualcuno mi chieda:
“Ma che sono ’sti dazi di cui parlano tutti?”.
Ecco, inizia tutto da qui. Parliamo di dazi, in prima persona, con un tono un po’ ironico ma soprattutto divulgativo, perché anche io, comune mortale senza laurea in economia, ho dovuto farmi un’idea.
“Quando le merci non attraversano i confini, lo faranno gli eserciti.” — Frédéric Bastiat

Cosa sono i dazi (spiegato facile)
I dazi (o tariffe doganali) sono, in parole povere, tasse sulle importazioni.
Immagina che ogni prodotto straniero, per entrare nel nostro paese, debba pagare un biglietto d’ingresso.
Chi incassa ? Lo Stato che impone il dazio.
Perché esistono ? Per difendere i produttori locali dalla concorrenza estera.
Se uno smartphone cinese o americano costa troppo poco e minaccia le vendite di quello europeo, un governo può metterci sopra un bel dazio, così il prezzo sale e il prodotto locale torna competitivo (o almeno così sperano).
In pratica è come se, quando compri un capo firmato che viene da fuori, alla cassa ti facessero pagare un extra solo perché è “forestiero”.
Un esempio quotidiano ? Pensiamo alle arance: se in Italia costano 1 € al chilo ma quelle sudafricane ne costano 0,50, un dazio di 0,50 € sulle arance dal Sudafrica le porterebbe allo stesso prezzo delle nostre.
Risultato: noi consumatori paghiamo comunque 1 €, ma almeno metà finisce nelle casse pubbliche e i produttori italiani non vengono tagliati fuori.
Bel vantaggio ? Dipende dai punti di vista: lo Stato incassa e i produttori locali sorridono, ma noi consumatori… beh, il portafoglio piange, perché senza dazio avremmo comprato a 0,50 €.
I dazi sono tasse travestite da scudo patriottico: proteggono le aziende nazionali, ma facendo pagare a noi un prezzo più alto per i prodotti importati.
La nuova guerra dei dazi di Trump (dal 9 aprile)
Fin qui tutto chiaro ? Bene, ora la storia si infiamma.
Perché dall’altra parte dell’oceano c’è un tale Donald Trump (sì, l’ex Presidente USA, famoso per le cravatte rosse e i tweet esplosivi) che ha deciso di tirare fuori il suo artiglio tariffario.
Dal 9 aprile ha annunciato una raffica di nuovi dazi contro praticamente mezzo mondo. Parliamo di tariffe dal 10% fino a punte del 49% a seconda del paese di origine !
In pratica una tassa aggiuntiva su quasi tutto ciò che gli americani importano dall’estero, con poche eccezioni.

Trump l’ha definita addirittura una sorta di “Liberation Day” per l’economia americana, con lo slogan patriottico “Make America Wealthy Again” (rifacciamo l’America ricca).
Secondo lui per decenni gli altri paesi hanno “fatto i furbi” con gli Stati Uniti, applicando tariffe e barriere ai prodotti americani.
Dunque, dice The Donald, è ora di ricambiare il favore con dazi “reciproci”: “Gli americani sono stati derubati per più di 50 anni, ma non succederà più!” ha tuonato, promettendo che fabbriche e posti di lavoro torneranno a ruggire in patria.
La sua mossa è: “Voi tassate (o sussidiate) i nostri prodotti? E io tasserò i vostri a metà di quanto fate voi”. Semplice e diretto, almeno nelle intenzioni annunciate.
Quali sono questi dazi? In pratica gli USA impongono subito un 10% su tutte le importazioni, e poi aggiungono uno strato extra per i paesi con cui hanno il maggior disavanzo commerciale (cioè da cui comprano molto più di quanto vendono).
Risultato: alcuni partner storici vengono colpiti duramente.
Ad esempio, tutti i prodotti dalla Cina avranno un dazio del 34% e quelli dall’Unione Europea del 20%.
Ci sono casi persino peggiori: certe nazioni asiatiche “meno famose” vedranno tariffe vicine al 50% praticamente un salasso che raddoppia il prezzo di arrivo !
Al contrario, paesi vicini amici come Canada e Messico se la cavano con uno 0% (zero) aggiuntivo, perché protetti dagli accordi commerciali esistenti (il USMCA, ex NAFTA) .
A Ottawa e Città del Messico possono tirare un sospiro di sollievo: per ora niente “tassa Trump” sui loro prodotti, a patto che rispettino gli accordi in vigore.
Come se non bastasse, Trump ha preso di mira in particolare il settore auto. Ha infatti confermato un dazio del 25% su tutte le automobili importate negli USA.
Questo colpisce al cuore le case automobilistiche europee (le tedesche in primis, grandi esportatrici di auto negli States) e quelle giapponesi. Pensateci: un quarto del valore di un’auto straniera venduta in America finirà nelle casse del Tesoro USA come tassa.
Un bel guaio per BMW, Mercedes, Toyota & Co. (e probabilmente una gioia per i produttori americani di pick-up e SUV).
Questa tariffa sulle auto è entrata in vigore dal 3 aprile, scatenando immediatamente reazioni furiose da parte di molti governi.
Le reazioni internazionali: alleati o rivali?
E qui casca l’asino: la reazione internazionale è stata, prevedibilmente, un mix di shock, rabbia e (forse) un filo di tradimento da parte di quelli che credevano di essere alleati di vecchia data.
Vediamo un po’ le principali reazioni, perché ogni paese l’ha presa a modo suo:
Unione Europea (e paesi europei): in Europa la notizia è caduta come un fulmine a ciel sereno.
L’UE è storicamente alleata degli USA dal dopoguerra, e trovarsi etichettata come “nemico commerciale” non ha fatto piacere.
Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha usato parole dure: ha definito i dazi americani “un duro colpo all’economia mondiale” e ha avvertito che le “conseguenze saranno terribili per milioni di persone”.
Ha aggiunto che “l’unità è la nostra forza” e che Bruxelles è pronta a difendersi con contromisure se necessario.
L’Europa cercherà di negoziare fino all’ultimo, ma sta già preparando la controffensiva.
Si parla di dazi su prodotti iconici americani con visioni di Harley-Davidson ferme in dogana e bourbon accantonato nei magazzini doganali….

A livello di singoli Stati europei, il tono è un misto di delusione e fermezza.
La Francia ha giudicato i dazi “inaccettabili” (inutile dire che Parigi e Washington già litigavano su digital tax e formaggi vari, ora peggiora).
La Germania, molto colpita sul fronte auto, tramite associazioni industriali ha invitato alla calma ma anche al dialogo: l’industria chimica tedesca, ad esempio, ha avvertito che un’escalation farebbe solo più danni e ha chiesto all’UE di mantenere “sangue freddo” e negoziare con gli USA.
Però il messaggio comune è chiaro: “Siamo alleati, ma se ci provochi sui dazi risponderemo per le rime.” Anche l’Italia, dal canto suo, attraverso il Presidente Mattarella ha definito l’iniziativa di Trump “un errore” e il governo ha parlato di evitare assolutamente una guerra commerciale aperta.
Cina: se in Europa siamo arrabbiati, in Cina sono furibondi.
Pechino è il bersaglio principale di Trump (34% di dazio su tutti i prodotti cinesi, praticamente una dichiarazione di guerra commerciale aperta).
La reazione cinese è stata immediata: un portavoce governativo ha dichiarato che la Cina “si oppone fermamente” alle tariffe USA e “adotterà risolutamente contromisure” equivalenti . Traduzione: preparatevi a vedere gli americani assaggiare la stessa medicina.
Hanno già fatto capire quali armi potrebbero usare: tariffe sui prodotti agricoli USA (soia, mais – guarda caso le esportazioni dai contadini che sono la base elettorale di Trump…) e restrizioni sull’export di materiali strategici (tipo le terre rare indispensabili per gli smartphone e le auto elettriche).
La Cina accusa gli Stati Uniti di “bullismo unilaterale” e ha lanciato un messaggio chiaro: “Non ci sono vincitori in una guerra commerciale”.
E quando un gigante economico come la Cina ti dice così, significa che è pronta a combattere ma sa che tutti si faranno male.
Giappone: anche il Giappone, fedele alleato USA nel Pacifico, è finito nel mirino (dazi intorno al 24% sui suoi prodotti, non noccioline). Tokyo ha espresso rammarico profondo, definendo i dazi “estremamente deplorevoli”.
Il governo giapponese ha formalmente protestato presso Washington chiedendo di ritirare queste misure, ma allo stesso tempo sta evitando mosse affrettate. Il Giappone per ora non annuncia contromisure immediate: probabile che stiano sperando in una soluzione diplomatica, magari aspettando di vedere se Trump sbollisce o se altri paesi si muovono per primi.
D’altra parte il Giappone deve ponderare bene ogni ritorsione, perché è legatissimo agli USA per la sicurezza (vedi questione nordcoreana e cinese).
Comunque, l’aria a Tokyo non è delle migliori: immaginatevi i dirigenti di Toyota e Honda sbiancare alla notizia dei dazi sulle auto…
Canada e altri (amici-nemici): come accennato, Canada e Messico sono stati graziati (0% di nuovi dazi se rispettano gli accordi). E infatti da Ottawa e Città del Messico il tono è stato quasi di ** sollievo**: “meno male, stavolta ci è andata bene”.
Ciò non toglie che anche i leader canadesi e messicani abbiano criticato in generale la mossa di Trump, sottolineando che esasperare le tensioni commerciali danneggia tutti. Justin Trudeau (premier canadese) in diplomazia ha ricordato che Canada e USA sono partner strettissimi e dovrebbero lavorare insieme, non farsi la guerra dei dazi.
Un po’ la parte del “amico deluso che però ti vuole far ragionare”.
E che dire di paesi più piccoli ma coinvolti ?
Taiwan, ad esempio, è in una posizione delicata: pur essendo amica degli USA, rientra tra i paesi con grosso surplus commerciale verso gli States (pensate ai microchip taiwanesi che invadono il mondo, USA compresi).
Taipei ha reagito in modo pragmatico: invece di fare la voce grossa, sta cercando di addolcire Trump. Come ? Ha annunciato piani per aumentare le importazioni di gas naturale dagli Stati Uniti e perfino di ridurre i propri dazi su alcuni prodotti americani, così da riequilibrare un po’ la bilancia commerciale e togliersi dall’elenco nero .
Una mossa astuta: ti compro più roba e ti taglio qualche tassa, caro Donald, così magari mi togli dalla lista dei cattivi. Staremo a vedere se funzionerà.
In generale, a livello globale, nessuno ha applaudito le mosse di Trump (a parte forse qualche produttore americano protetto dai dazi).
Dall’India al Brasile, tutti osservano con preoccupazione: c’è chi prepara ritorsioni, chi cerca esenzioni, chi prova a stringere nuove alleanze commerciali alternative. Persino l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), di solito sonnacchiosa, è tirata in ballo: l’UE e altri potrebbero fare ricorso formale, anche se con Trump in modalità “cowboy solitario” non è detto che serva a molto.
Impatto sui mercati: tecnologia, energia, lusso e auto in subbuglio
Se la diplomazia è in fermento, i mercati finanziari globali non sono stati a guardare con le mani in mano.
Appena sono trapelate queste notizie di dazi a tappeto, le Borse mondiali hanno avuto un sussulto, anzi uno scossone bello forte.

Il motivo è semplice: gli investitori odiano le guerre commerciali, perché significano costi più alti, meno scambi, economie rallentate.
E infatti abbiamo visto subito un giovedì nero (anzi rosso) sui listini:
- Borse giù in tutto il mondo: in Europa le piazze azionarie sono crollate in apertura, con cali attorno al 2% o più (Francoforte -2,4%, Parigi -2,15%… insomma tutti a picco). Anche Wall Street non ha gradito: gli indici americani sono scesi, mentre l’oro è schizzato ai massimi (quando c’è paura, tutti comprano oro come bene rifugio) e il dollaro si è indebolito nettamente. Si torna a parlare di rischio di recessione globale: parole grosse, ma gli analisti temono che se questa guerra dei dazi continua, la crescita mondiale prenderà una bella frenata.
- Tecnologia: il settore tecnologico soffre perché vive di catene di fornitura globali. Pensiamo ai chip e smartphone: prodotti magari assemblati in Cina con componenti americane, taiwanesi, europee… un casino. In Borsa, i titoli tech hanno subito perdite pesanti. Ad esempio in Italia la STMicroelectronics (colosso dei microchip italo-francese) è caduta di un -3% in un solo giorno. Aziende come Apple, Samsung, etc. temono rincari di componenti e ritorsioni: un iPhone potrebbe costare molto di più se i pezzi cinesi vengono tassati al 34%. E se la Cina reagisce, anche esportare software USA o servizi web diventa più difficile. In breve, il tech balla sul filo: meno scambi globali = gadget più cari e meno vendite.
- Energia: qui la situazione è curiosa. Da un lato Trump ha escluso alcune materie prime energetiche dai suoi dazi (non vuole certo far salire il prezzo della benzina agli americani). Dall’altro, però, le tensioni frenano la fiducia economica e quindi il prezzo del petrolio è calato (meno crescita, meno domanda di energia). Così i titoli energetici hanno sofferto: ad esempio il produttore di tubi per l’oil&gas Tenaris ha perso quasi il 4% in Borsa immediatamente. Paesi esportatori di energia (come Canada, Medio Oriente, Russia) guardano con timore a possibili contraccolpi sul mercato globale. Perfino le criptovalute come il Bitcoin hanno visto volatilità (nel caos molti vendono anche gli asset più rischiosi, cercando rifugio altrove).
- Lusso: il settore del lusso vive di clientela internazionale e immagine globale. Se parte una guerra di dazi, rischia di vedere meno turisti facoltosi in giro per shopping e possibili tariffe sui beni iconici. Gli Stati Uniti sono un mercato enorme per moda e prodotti di lusso europei; se mettere un dazio del 20% significa che una borsa italiana o un profumo francese costeranno molto di più a New York, è probabile che ne vendano meno. Allo stesso modo, i ricchi cinesi potrebbero boicottare i brand americani in risposta ai dazi anti-Cina. Un brutto colpo potenziale per marchi come Louis Vuitton, Gucci, Ferrari ecc. (anche se quest’ultima curiosamente in Borsa ha tenuto botta, forse perché i suoi clienti non si fanno spaventare da +20% di prezzo…). Nel lungo periodo però, il lusso teme ogni barriera: è un settore che prospera con la globalizzazione e soffre se tornano i muri doganali.
- Automotive: il comparto auto è probabilmente il più colpito di tutti. I motivi sono chiari: Trump ha puntato il dito proprio contro le auto estere con il suo dazio del 25%, e molti paesi (Europa, Giappone, Corea) hanno l’auto come settore trainante dell’export. Le case automobilistiche europee in Borsa sono crollate: i titoli di BMW, Daimler, Volkswagen hanno perso vari punti percentuali in un lampo. In Italia anche FCA/Stellantis e la filiera (Iveco, componentistica) sono scesi subito. Oltre al danno immediato in Borsa c’è la prospettiva concreta di dover alzare i prezzi delle auto in America (con possibili cali di vendite) o assorbire il dazio riducendo i margini (a scapito dei profitti). Alcune aziende potrebbero pensare di spostare più produzione direttamente negli USA per evitare i dazi, ma non è cosa che si fa in un giorno. E se scatta la ritorsione europea (dazi sulle auto americane, come le Harley o le Tesla), avremo uno stallo alla messicana: ogni blocco protegge i propri produttori e penalizza quelli altrui. In definitiva, il settore auto rischia seriamente di finire in recessione se questa guerra commerciale va avanti: è come mettere sabbia negli ingranaggi di una macchina già sotto stress per la transizione elettrica.
Europa: amici di ieri, rivali di oggi ? (Questa è una Riflessione personale)
A questo punto, tolti i panni del cronista, permettetemi un commento da europeo (e da persona comune che guarda un telegiornale e sgrana gli occhi).

Ma davvero siamo arrivati a questo punto ? Cioè, da alleati inseparabili a “nemici” in guerra economica ? Sembra l’inizio di un brutto film, di quelli in cui il gruppo di amici di vecchia data litiga furiosamente. Solo che qui gli amici sono continenti e potenze mondiali.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti e l’Europa occidentale hanno costruito insieme un ordine basato su commercio libero (o relativamente libero) e cooperazione.
Abbiamo creato istituzioni, firmato trattati, abbassato barriere.
Siamo stati partner in NATO, compagni di battaglie (quelle vere, purtroppo) e di prosperità economica. Vedere ora l’America che impone dazi punitivi all’Europa fa un certo effetto. È un po’ come se il tuo migliore amico d’infanzia ti denunciasse perché sostiene che gli hai rubato la merenda tutti i giorni a scuola: “Come, proprio tu ce l’hai con me?”.
Certo, non facciamo i santi: anche l’Europa ha i suoi interessi e qualche torto (protezioni e sussidi li abbiamo pure noi, vedi agricoltura o certe industrie).
Ma qui sembra di rivivere gli spettri del passato.
Ricordiamoci che negli anni ’30 una spirale di dazi e ritorsioni (ognuno pensava “prima i miei !”) contribuì ad aggravare la Grande Depressione e, indirettamente, a creare il terreno per il conflitto mondiale.
Non voglio fare il catastrofista – oggi per fortuna spararsi addosso è fuori questione tra Occidente democratico – però le guerre economiche possono lasciare macerie quanto quelle combattute con i carri armati, solo che le vittime sono posti di lavoro e imprese invece che persone.
L’Europa ora si trova a un bivio storico.
Da un lato deve mostrare unità e fermezza nel difendere i propri interessi, perché se cedi al bullismo commerciale poi chiunque penserà di poterti schiacciare. Dall’altro lato, deve fare attenzione a non buttare via decenni di amicizia e collaborazione transatlantica.
Questi dazi di Trump rischiano di segnare l’inizio di una sorta di “guerra fredda commerciale” tra le due sponde dell’Atlantico.
Personalmente, spero che prevalga il buon senso e che si trovi un accordo, magari con qualche concessione reciproca. L’alternativa è un mondo in cui ognuno va per conto suo, alzando muri (stavolta non di cemento ma di percentuali doganali) e guardando gli ex amici con sospetto.
Un mondo così è più povero, meno sicuro e più instabile.
C’è chi dice che questa crisi potrebbe perfino avere un risvolto positivo: costringerà l’Europa a essere più unita e autonoma.

Paradossalmente, Trump potrebbe aver dato una sveglia all’UE – del tipo “fai da te che è meglio”. Se non possiamo più dare per scontato l’amico americano, l’Europa dovrà stringersi a coorte, innovare, e cercare nuovi sbocchi.
Forse nel medio termine impareremo la lezione e diversificheremo i mercati (ad esempio, rafforzando i legami commerciali con Africa e Asia per dipendere meno dall’umore di Washington).
Resta però l’amaro in bocca nel vedere incrinarsi un rapporto costruito in 80 anni.
Da europeo nato decenni dopo la guerra, ero abituato a vedere USA ed Europa dalla stessa parte, un po’ come quei nonni che si punzecchiano ma poi vanno sempre d’accordo.
Ora la punzecchiatura sta diventando un pugno sul tavolo.
Siamo di fronte all’inizio di una guerra economica tra vecchi amici ?
Forse sì, e fa strano perfino scriverlo.
L’augurio è che sia una scaramuccia passeggera e non l’inizio di una lunga ostilità. Perché, in fin dei conti, tra amici meglio fare affari che far guerre.
“L’Europa sarà forgiata nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per quelle crisi.” — Jean Monnet
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